Nel Napoletano, il decreto 28 maggio 1816, n. 377, considerava alienabili tutti i fondi, rustici ed urbani, appartenenti allo Stato, indicando le modalità da osservarsi per la vendita.
Il successivo decreto 18 settembre 1816, n. 487, sempre per il Napoletano, permetteva l’affrancazione dei censi da corrispondersi a luoghi pii e a pubblici stabilimenti, purché non di patronato familiare, escludendo pure dalla possibilità di affrancazione quei canoni dovuti in derrate, o in parte in derrate e in parte in danaro, fissando le modalità da osservarsi.
Il decreto 6 novembre 1816, n. 552, confermava quindi le concessioni dei beni, fondi e rendite, già eseguite nel tempo “dell’occupazione militare”, affidando la vendita e l’affrancazione dei fondi rustici e urbani – previste dai precedenti decreti nn. 377 e 487 - alla Cassa di ammortizzazione, alla quale il decreto 11 febbraio 1815 aveva affidata la competenza in materia di beni regolati durante “l’occupazione militare”.
Una nuova disciplina della Cassa di ammortizzazione veniva data successivamente con decreto 23 febbraio 1818, n. 1124.
Intanto, il decreto 27 novembre 1816, n. 554, fissava le modalità da osservarsi per le vendite dei beni rustici dello Stato, vendite da eseguirsi mediante subaste.
Intervenuto il Concordato con la Chiesa cattolica, il decreto 3 luglio 1818, n. 1234, prescriveva che dalla vendita dei beni rustici dello Stato e dei pubblici stabilimenti dovessero escludersi solo i beni ecclesiastici, ciò in ossequio a quanto era contemplato dall’art. 12 del Concordato.
Il decreto 16 gennaio 1822, n. 186, provvedeva a dare dettagliate norme da seguirsi nel caso di vendite, “volontarie e forzose”, nei domini di là del Faro. A questo scopo, anzi, si istituiva a Palermo una speciale “commissione temporanea”, composta dal presidente di quella Gran corte dei conti (che doveva presiederla), dal vicepresidente della medesima gran corte, e da un consigliere della Suprema corte di giustizia. Tale commissione aveva competenza esclusiva in materia di vendite, volontarie o forzose, riguardanti immobili, nonché in materia di liberazione all’asta giudiziale e all’aggiudicazione dei detti immobili. La sua giurisdizione si estendeva su tutte le valli della Sicilia e le sue decisioni erano inappellabili, ammettendo solo ricorso alla Suprema corte di giustizia.
Tale commissione veniva abolita dal decreto 18 agosto 1825, n. 232, che prescriveva “che la commissione delle vendite volontarie e forzose nei domini oltre il Faro [cessava] dalle sue funzioni, [rimettendosene] le cause innanzi ad essa pendenti ai giudici deputati o ai tribunali ordinari”.
Il decreto 24 marzo 1834, n. 2074, - rifacendosi alle sovrane determinazioni del 7 e del 22 gennaio 1834, relative all’istituzione in Sicilia di un Gran libro del debito pubblico, nonché della corrispondente Cassa di ammortizzazione - procedeva ad istituire in Palermo una “commissione di magistrati e di funzionari amministrativi”, incaricata di verificare i “titoli originari ed originali” del così detto debito perpetuo e di altri debiti di quella tesoreria generale, da iscriversi nel Gran libro del debito pubblico. Tale commissione si componeva del presidente di quella Gran corte dei conti - quale presidente -, da un consigliere della Suprema corte di giustizia, dal direttore generale dei rami e diritti diversi, dal vice presidente della Gran corte civile di Palermo e da un giudice di quella medesima gran corte civile; un altro consigliere della Suprema corte di giustizia vi esercitava le funzioni di pubblico ministero.
Annesso al decreto 24 marzo 1834, n. 2074, seguiva un dettagliato regolamento di pari data.
Poco dopo il decreto 19 dicembre 1838, n. 5007, dettava, per la Sicilia, norme per portare a compimento l’abolizione della feudalità, nonché lo scioglimento dei diritti promiscui. Con esso si conferivano estesi poteri agli intendenti, incaricati di attivarsi, a tal fine, presso i tribunali ordinari, procedendo pure, nei casi dubbi ad interpellare il procuratore generale presso la Gran corte dei conti onde ottenerne pareri.
Successivamente, il decreto 11 dicembre 1841, n. 7095 ordinava perentoriamente che in tutte le province della Sicilia dovesse cessare la riscossione, e l’esercizio, di qualsiasi diritto, o abuso, ex-feudale, di già abolito, ma che tuttavia risultasse ancora sussistere.
Nella stessa data 11 dicembre 1841, il decreto n. 7096 approvava le Istruzioni, che venivano date agli intendenti per addivenire allo scioglimento delle promiscuità e alla ripartizione delle terre demaniali esistenti nei domini oltre il Faro.
Altro decreto, sempre dell’11 dicembre 1841, n. 7097, incaricava taluni magistrati per liquidare i compensi, dovuti per gli aboliti diritti ex-feudali e per le segrezie di Sicilia. Per raggiungere tale scopo, veniva costituita una commissione composta: dal vice presidente della Gran corte dei conti di Palermo, quale presidente, da un consigliere della medesima Gran corte dei conti, con le funzioni di avvocato generale, da un giudice della Gran corte civile di Palermo, e dal procuratore presso il Tribunale civile di Palermo, questi ultimi due quali consiglieri aggiunti dalla predetta commissione.
In relazione a quanto era stato disposto con il decreto 19 dicembre 1838, n. 5007, il decreto 6 giugno 1842, n. 7424, dettava particolari disposizioni per la censuazione dei beni ecclesiastici di regio patronato, esistenti in Sicilia.
In considerazione che anche in Sicilia era stato istituito il Gran libro del debito pubblico, il decreto 16 febbraio 1852, n. 2847, dichiarava alienabili i beni del demanio pubblico, dei luoghi pii laicali, degli stabilimenti e delle corporazioni, esistenti nei domini al di là del Faro, con esclusione di quelli fra di essi che fossero di natura ecclesiastica o che appartenessero al “patrimonio regolare” o che fossero dei comuni.
Il medesimo decreto dichiarava esser competente a concedere le affrancazioni, o a consentire le vendite, una commissione, che veniva istituita contestualmente in ciascuna provincia della Sicilia e che doveva essere composta dall’intendente, quale presidente; dal direttore provinciale dei rami e diritti diversi; dal regio procuratore presso il Tribunale civile; dal vicario diocesano (o, in mancanza, da un consigliere del Consiglio degli ospizi); dal consigliere d’intendenza più anziano.
Infine, il decreto 15 febbraio 1860, n. 666, estendeva l’applicazione dei decreti 16 febbraio 1852, n. 2847 e 29 marzo 1852, n. 2934, (quest’ultimo approvante il regolamento per la permutazione e l’affrancamento dei beni del demanio) anche ai beni patrimoniali dei comuni - prima esclusi -, purché non si trattasse di boschi.